venerdì 26 dicembre 2008
Le storie di chi ha fatto i conti con la sofferenza ed è riuscito ad uscirne: un ergastolano converito, un bambino trapiantato, i giovani recuperati nel rione Sanità di Napoli. Con l’aiuto dell’Altro e di uomini che ne sono stati testimoni credibili.
COMMENTA E CONDIVIDI
Le storie di chi ha fatto i conti con la sofferenza ed è riuscito ad uscirne. Con l’aiuto dell’Altro e di uomini che ne sono stati testimoni credibili. Due vite sbagliate, ma che grazie al lavoro dietro le sbarre ora hanno trovato Dio e la forza di chiedere perdono; l'odissea di un bambino sottoposto a due trapianti e a una vita scandita dai farmaci; i racconti dei giovani che hanno trovato nei Centri di solidarietà di Napoli una mano tesa al loro bisogno.  PADOVA: Ripartire dal carcere, Marco e Angelo «liberi»  Questa notte la libertà, ma senza sconti. Anche se sulla sua fedina c’è scritto "Fine pena: mai", per Marco le porte del carcere si aprono nel­la Notte Santa. «Esco in permesso – racconta Marco, detenuto al 'Due Palazzi' di Padova – ma la libertà vera per me non è solo varcare i cancelli del carcere. In fondo qui ho un lavoro e, attraverso un lungo cammino e l’incontro con i volontari ho trovato la fede in Dio». Marco deve scontare due ergastoli per un duplice o­micidio e numerosi crimini commessi in una vita da trafficante di droga. Le braccia robuste tatuate, il cor­po massiccio e le mani forti dicono molto della sua vita. Lo sguardo è tranquillo, il volto vissuto. Ha 43 anni. «Sono nato nel 1965 – spiega – in una città del Trive­neto dove vivono ancora mia figlia e la mia ex moglie. A 15 anni ho scelto di darmi al crimine. Volevo arric­chirmi in fretta e avere potere. Ero un uomo violen­to. Per anni ho girato il mondo con i documenti falsi. Ero un trafficante di stupefacenti, passavo le frontie­re con trucchi sem­pre nuovi per na­sconderla e cam­biavo spesso iden­tità finché non mi hanno preso». Mar­co è in carcere dal 1992. «I primi cinque an­ni li ho passati in i­solamento. Non vo­levo vedere nessu­no. Avevo sempre in mente di fuggire, di tornare alla vec­chia vita. Poi sono arrivato a Padova, ho conosciuto alcuni volontari. E pian piano qualcosa si è aperto dentro». Dietro le sbarre Marco viene assunto alla cooperati­va Giotto, dove lavora nel settore che assembla vali­geria e gioielli e la sua vita è cambiata attorno ai 35 anni. «Un paradosso. Ho sempre voluto tutto e subito. In­vece proprio attraverso il lavoro ho trovato Dio, la fe­de e me stesso. All’inizio avevo paura. Cosa poteva dire il Signore a un ergastolano? Invece grazie a Lui ho trovato la libertà in carcere». Marco vive oggi la prigionia come un percorso di li­berazione. «Qui posso fare ancora qualcosa per ri­mediare al male che ho commesso e che ho lasciato sul mio cammino. Aiuto il mio prossimo, ho ritrova­to il rapporto con mia figlia che ha quasi 20 anni e che ho lasciato da piccola. Ogni due mesi esco e almeno cerco di starle vicino». Ecco il senso della sua Notte Santa. «Passerò tutta la vita in galera,, però stanotte e domani e tutte le volte che posso, vado a servire i pa­sti ai senza dimora in una mensa per poveri. Non pos­so tornare indietro, ma posso aiutare chi soffre più di me». Notte Santa diversa anche per Angelo, 42 anni, dete­nuto che ha perso tutto in un momento di follia. «Do­po una gioventù balorda a Napoli – racconta – ho de­ciso di cambiare vita e mi sono trasferito a Venezia. Ho fatto per anni il muratore, ho conosciuto una ra- gazza e ci siamo innamorati. Ci siamo sposati e sono nati tre figli. Eravamo felici. Poi ho cambiato lavoro, mi sono messo in proprio come autotrasportatore. Ma le cose non andavano bene, ero preoccupato, non dormivo la notte e trascuravo mia moglie». Manca­vano pochi giorni al Natale del 2000, quando scopre che la sua donna ha una relazione con un amico co­mune. Angelo perde la testa e la uccide. «Ho perso tutto in un momento maledetto. I miei fi­gli sono stati adottati, i miei genitori e i miei fratelli mi hanno fatto sapere che per loro ero morto. Sono stato condannato a 20 anni». Cosa cambia con il Natale 2008? «Sono stato curato, ora ho capito cosa ho fatto, prima non volevo sentire ragioni. E sto cominciando a riav­vicinarmi a Dio. Voglio pagare fino in fondo e scon­terò per sempre il mio delitto. Ma ora ho trovato un lavoro in carcere con la coop Giotto e questo mese rie­sco a mettere da parte qualcosa per i miei figli. Un gior­no, se sarà possibile, vorrei rivederli e chiedere loro perdono. È un Natale diverso per me perché ho ri­trovato la forza di ricominciare per loro».TORINO: Michele, il ragazzo nato tre volte. L'ultima con il rene della nonnaFra qualche giorno, il nuovo rene di Michele compie un anno. È il secondo che gli sostituiscono, eppure Michele ne parla come se niente fosse, probabilmente perché è un organo in qualche modo... conosciuto. Insomma, un rene di famiglia: glielo ha donato sua nonna materna, Pier Luisa. Se le chiedete perché lo ha fatto, la sentirete sorridere, poi rigira la domanda: «Beh, che c’è di strano? Michele sta bene. Ed anche io».Ritratto di famiglia (felice) in casa Marchiaro, a Torino, sulla collina di Moncalieri che domina la città: papà Sergio, la mamma Carlotta e la nonna Pier Luisa che gli amici chiamano Pierlù. Tutti e tre potevano donare un rene a Michele, nato tre volte: il 16 luglio del 1989 (come attesta l’anagrafe); il 9 settembre 1993, quando fu trapiantato di fegato e rene a soli quattro anni, e infine – terza nascita – il 3 gennaio di quest’anno che sta per finire, l’anno per Michele più importante con il nuovo rene che gli ha consentito di ripartire. Straordinario come, nonostante due trapianti e una vita scandita quotidianamente dalla ciclosporina, quel farmaco che scongiura il rigetto, la vita di Michele sia normale. Di certo, chissà quando e chissà come, avrà pensato: «Vengo prima io, poi la malattia», e vive la sua vita con grande serenità. Finché il primo rene ha retto, non si è fermato, senza pensare al dopo. Se non fosse che è un brillante studente alla Bocconi, impegnato nel management in inglese; se non fosse poi che ha tanti interessi (ci è parso di capire che Parigi è tra questi), lo si potrebbe immaginare superficiale quando riflette: «Ora che succederà? Se anche questo rene non dovesse sopportarmi più, ce ne sono altri due. Sono le mie ruote di scorta». Il rene, appunto, di mamma e di papà, perfettamente compatibili con il suo.Michele non si è mai sentito diverso, e la malattia non ha mai segnato questa famiglia, turbandone la serenità, sarà forse perché è nato con un male scritto nei suoi geni: l’ossalosi, quella malattia ereditaria, molto pericolosa, caratterizzata da un elevato livelli di acido ossalico nelle urine. C’è poco da fare: soltanto il trapianto può risolvere questa patologia che compromette anche il fegato. Ma, quando gli viene diagnosticata, Michele è troppo piccolo perché possa essere trapiantato. Deve crescere e raggiungere un certo peso, intanto è costretto, bambino, alla dialisi. Ha poco più di quattro anni quando, dall’ospedale torinese "Regina Margherita" i genitori lo portano a Bruxelles per essere operato alla Clinica universitaria "Saint-Luc". In Italia questo doppio trapianto non poteva, all’epoca, essere eseguito.Michele va in Belgio per nascere una secondo volta, mentre gli altri bambini, i suoi coetanei, giocavano a Torino. Ma non si è mai sentito "diverso" a causa della malattia. «Per me – dice – non c’è mai stata una vita senza farmaci. Prendere la medicina, quindi, è sempre stato un fatto normale. Insomma, non c’è stato lo choc del prima e del dopo», e chissà se qualche volta non avrà anche pensato che tutti i bambini forse prendono medicine.Il doppio trapianto, benché in tenera età, ha funzionato benissimo. Fino a un anno fa. Il 2008 sarebbe stato l’anno terribile della dialisi e dell’attesa di un donatore, perché il rene avuto a Bruxelles non ha più retto. In casa Marchiaro si sono guardati negli occhi e hanno avuto tutti la stessa idea: dare un rene a Michele. Mamma, papà e la nonna si sono sottoposti agli accertamenti clinici. Potevano essere tutti e tre donatori. «Ho sperato tanto – dice la nonna – che prendessero il mio». È andata proprio così. Una mattina alle "Molinette", al principio di quest’anno, un anno straordinario per Michele, Piero Bretto, il chirurgo vascolare, ha operato il trapianto di "famiglia". E il 2008 è passato sereno, con la terza nascita di Michele. Adesso la preoccupazione di casa Marchiaro è un’altra: dare la stessa serenità a chi ne ha bisogno. Hanno dato vita all’Ain, l’Associazione infanzia nefropatica (www.ain.piemonte.it). Così, la signora Carlotta, come tutte le mamme pensa al figlio, senza però perdere di vista anche quelli degli altri.NAPOLI: Nando riaccende la luce al rione SanitàGli occhi di Pasquale brillano nel viso sottile, sopra gli zigomi accesi dal belletto, in armonia con il rosso dell’abito e la nera parrucca da pacchianella (paesana) indossati per la tombola animata durante la festa, lunedì sera alla Sanità. Festa di Natale per i bambini e le famiglie che gravitano nel Centro di Solidarietà, pianeti non satelliti, anche se la confusione, pari per intensità a quella che si alza da fuori, dai Vergini alla Sanità, non ha niente del silenzio galattico. Nell’antica sacrestia del convento dei Padri Vincenziani, per l’occasione trasformata in spogliatoio e magazzino, unico luogo dove il silenzio prova a rifugiarsi, Pasquale mette la mano magra e forte, mano di lavoratore, sul petto dove batte il cuore e ripete, come se ancora non ci credesse: «È la vita, è la vita. È bello, è bello». E con queste parole spezzetta in frammenti di meraviglia le frasi. Pasquale Di Fiore, 36 anni a gennaio, racconta gli ultimi dodici mesi con la gioia di chi si è aperto da poco alla luce del mondo. Nato, rinato un anno fa, lo ammette con lo stupore di un bambino felice davanti ad un dono gradito eppure inaspettato. Quel bambino che lui non è stato. Aveva tre anni quando i genitori si sono separati. A cinque anni, e per sette anni, è andato in collegio: ricordi appena accennati di solitudine e di rabbia. «Mi mancava la mamma» e stringe la mano a pugno come se volesse trattenerla. La mamma poi ritrovata, che è «la vita mia», confessa. È diventato grande tra le difficoltà della vita alla Sanità. Aspettando che qualcuno gli poggiasse una mano amica sulla spalla e lo guidasse tra il buio dell’anima nell’antico quartiere. Periferia nel centro di Napoli. Dove la Chiesa e il volontariato tengono accesa la fiammella della speranza facile a spegnersi nel vuoto della rassegnazione. «Andare o restare? Anche io me lo chiedevo», conferma Alfredo Minucci, responsabile marketing in un’azienda a Casalnuovo e cantautore per passione. Anche lui ha conosciuto la sofferenza di chi cerca un appiglio che fosse una ragione per rimanere. Si intrecciano le vite di Pasquale e di Alfredo, unite dalla speranza ritrovata fuori al bar Nando. Nando, anzi «Nando bar» come tutti lo chiamano, sembra l’angelo custode di questo angolo del quartiere. Fu lui il primo ad incontrare i giovani del Centro di Solidarietà e a sentirli parlare di una speranza per Napoli. È stato lui a mettere in contatto Pasquale, Alfredo e tanti altri con le attività e le idee dell’associazione nata sulle orme di don Giussani. «Avevo perso il lavoro, facevo il muratore – riprende Pasquale –. Un anno fa stavo fuori da Nando, passavano persone che non conoscevo e che mi dicevano: non ti preoccupare, qualcosa succederà. Io non capivo, però sentivo il cuore tornare a battere. Andavo a casa e lo raccontavo a mia moglie Rita. Ma che deve succedere, diceva lei. Però avevamo fiducia. E infatti è successo che ho trovato lavoro e proprio da Nando. Ma la cosa più bella è l’amicizia che ho trovato». Pasquale e Rita hanno due bambini, Alessando di dodici anni e Luigi di sette, «ma io e mia moglie siamo contenti e sono contenti anche loro». Hanno trovato la mano tesa nelle molte dei giovani che fanno parte del Centro di Solidarietà, da anni impegnato nella promozione delle persone, seguendo i bambini, aiutando le famiglie e, dice Alfredo, «facendoci percepire di più Cristo nella vita, anche a noi che siamo cresciuti con valori cristiani». Alfredo, 38 anni, sposato con Daniela e due figli, Martina di 10 anni e Mario di 7, adesso è sicuro di voler rimanere. E se prima nelle sue canzoni parlava di rabbia, ora canta: «Gridiamo il bene, accendiamo il sole sulla faccia di chi non può capire, accendiamo il sole nel buio di questa città».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: